A partire da Dio…l’uomo sono io: Il diritto di uccidere

femminicidio

 

L’amore è il valore aggiunto della vita. Sfugge ad ogni definizione ma tutti conosciamo il benessere che ci arriva quando siamo innamorati. Benessere psichico in termini di energia, positività, ottimismo, voglia di fare e benessere fisico, diventiamo più belli, la pelle e gli occhi sono luminosi, i radicali liberi vengono sconfitti a favore delle endorfine e dei feromoni e ci sentiamo in forma, dimagriamo persino.

Eppure anche l’amore ha il suo gemello cattivo, il suo Mister Hyde, la sua zona d’ombra

Ad essere obiettivi, il primo misogino della storia è stato Dio, ha creato Adamo e per trastullo gli ha dato Eva, una estrapolazione dal suo corpo, diciamo un frammento del suo essere.

La donna, subito evidenziando doti di curiosità e conoscenza, ha mangiato la mela e ha convinto Adamo a mangiarla…lui poteva anche dire di no!!

Da allora, dai tempi dei tempi, le donne hanno dovuto subire l’ingiuria di quella avventatezza e si sono trasformate in sesso debole, così debole da dover far partorire alle maschie menti una legge, la ius corrigendi ovvero il diritto del marito alla correzione dei comportamenti della moglie che egli riteneva disonorevoli e sbagliati!!!! E’ restata in vigore fino 1956 e praticamente legalizzava la violenza, le percosse e la segregazione in caso di soggettiva decisione del coniuge.

Il femminicidio è la deriva pesante della struttura patriarcale, una deformazione del concetto di proprietà tutelata dalle leggi in vigore.

Oltre alla citata ius corrigendi ci sono altre date significative da citare

solo tra il 1968 e il 1969 è stata dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 559 del codice penale che puniva unicamente l’adulterio della moglie;

solo nel 1975 è stata sostituita giuridicamente la famiglia strutturata gerarchicamente con un nuovo modello di famiglia paritaria;

solo nel 1981 è stata abrogata la legge che contemplava il cosiddetto delitto d’onore

volendo tralasciare diritto alla separazione tra coniugi (1970) e diritto all’interruzione volontaria della gravidanza (1978)

Pare che lo ius primae noctis sia una leggenda metropolitana arrivata attraverso falsi storici (?!)

Ma la lapidazione per adulterio, l’infibulazione sono realtà dei nostri giorni.

Da questo sostegno legal-culturale l’uomo è stato per secoli autorizzato, più o meno evidentemente, a considerare la propria compagna come qualcosa che si possiede.

Si può dire che ci sia una predisposizione individuale alla trasformazione da bravo compagno a mostro feroce?  A volte ci sono prodromi che danno segnali che si ignorano o si sottovalutano o che si pensa di poter controllare, mentre invece altre volte ci si trova difronte ad un essere sconosciuto e inaspettato nel quale si stenta a riconoscere l’uomo che si ama o si è amato.

Spesso è la gelosia il fattore scatenante, una gelosia patologica, malata di paranoie assurde, quasi sempre senza fondamento reale, in altri casi non è nemmeno quella.

Bisogna dare voce al dolore delle donne, alle loro contraddizioni interne, alla difficoltà di staccarsi da un uomo che si ama, all’alternanza di sentimenti ancora vivi con un risentimento che sfocia in un odio represso e inespresso. Al ricordare ciò che di bello si è vissuto per arrivare all’incredulità di ciò che si sta vivendo. Alla capacità di non soccombere, di non lasciarsi travolgere, di trovare dentro di sé quella forza trasformata in resilienza, crescita e liberazione. Entrare nei pensieri di una donna che ha subito violenza è un’introspezione nella sofferenza amorosa, nella sua incompatibilità di intenti e nella difficoltà di tranciare in maniera netta e definitiva, un rapporto che si ammala di sé stesso. La capacità di farlo diventa la vera rivincita ma sappiamo bene, dai continui fatti di cronaca, che spesso non basta per salvarsi. Nella denuncia di dolore è intrinseco un messaggio di speranza, e questa speranza può diventare concreta solo attraverso un cambiamento culturale di mentalità capace di evitare che la smania del possesso e un narcisismo sfrenato siano ancora considerati espressione d’amore e non devianza di esso. Il sentimento amoroso si avvale di tante sfaccettature, ha un percorso che parte dalla passione per arrivare alla tenerezza, passando attraverso il soddisfacimento dei reciproci bisogni, il rispetto e la fusione di elementi collanti che emergano dal suo interno ma anche dall’impatto esterno con la collettività e resta sano solo se si aggiunge il dialogo e la vicendevole comprensione.

La capacità di vedersi anime fragili, sia femminili che maschili, aiuta sicuramente in un percorso di recupero della propria integrità di genere che è complemento e non distruzione reciproca e se purtroppo l’amore finisce sappiamo bene che non si può rigenerare né con la volontà di farlo né con la violenza.

 

 

 

Quando l’amore materno diventa distruttivo e perde la sua essenza più naturale

 

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Stavo guardando The black mirror, la quarta serie, su netflix, quando improvvisamente ho cominciato a sentire un forte disagio.

Era la storia di una madre di una figlia, del padre non è dato sapere. Inizia che lei sta partorendo, poi torna a casa e si vede che la bambina cresce. Un pomeriggio la porta al parco e mentre lei parla con un’amica, Sara, cosi si chiama la figlia, scompare per seguire un gatto. Per fortuna la ritrovano ma in seguito a questo episodio le cresce uno stato d’ansia che non riesce a sopportare. Viene a sapere di un centro dove immettono nel cervello una specie di chip che attraverso uno schermo fa vedere quello che fa la bambina, quello che sta guardando, e le emozioni che sente, addirittura controlla lo stato di salute. C’è, inoltre, la possibilità di immettere un filtro che la tiene lontana dalle cose traumatiche che aumentano il livello di cortisolo. In questo caso la bambina vede queste cose in maniera indistinta, tutte pixellate e non le percepisce come cose cattive o che le possono far male.

Fino alla preadolescenza va tutto bene, poi la bambina mostra degli episodi di auto aggressività per capire cos’è il sangue, il dolore, la rabbia, la paura…. Emozioni e situazioni di cui sente parlare i compagni di scuola.

A quel punto la madre va a parlare con uni psicologo che le dice che deve staccare lo schermo, visto che il chip non si può rimuovere, e far fare alla bambina una vita normale.

La madre è molto combattuta, ma alla fine si sbarazza di questa specie di tablet chiudendolo in una scatola in soffitta. Nonostante non viva serenamente, mantiene il patto, fino al giorno in cui Sara, ormai adolescente, inventa una bugia per uscire con un ragazzo e rientra più tardi del previsto a casa.

Presa dall’ansia la madre comincia a telefonare e scopre che non è dove ha detto che sarebbe andata, cosi sale in soffitta e riesuma il tablet. In quel mentre la figlia sta avendo un rapporto sessuale con il ragazzo. Da quel giorno riprende a controllarla costantemente. Un giorno sul monitor si accende la spia “allarme stupefacenti” e lei vede che i due ragazzi con della cocaina.

Preoccupatissima, invece di parlare con Sara, va dal ragazzo e gli intima di lasciar perdere la figlia, il ragazzo che sapeva del chip, interrompe la relazione senza dar spiegazioni plausibili a quest’ultima.

Con la figlia mantiene un comportamento apparentemente normale e non dice niente, pur vedendola disperata per la perdita del ragazzo.

Intanto il congegno le segnala che Sara è rimasta incinta. Sempre senza dire nulla, compra la pillola del giorno dopo e la tritura nel frullato che le prepara tutte le mattine.

A scuola la ragazza si sente male, le fanno degli esami e le spiegano cosa è successo. A quel punto lei comincia a capire.  Torna casa e mette a soqquadro tutto finchè non trova la scatola della pillola e il tablet sotto al cuscino della madre.

In preda al furore raccoglie le sue cose, qualche soldo che trova in giro e decide di scappare di casa. Nel mentre la madre arriva. Sara, arrabbiatissima, le fa vedere l’aggeggio e in preda all’ira comincia a colpirla con quello sul volto, senza rendersi affatto conto di quello che sta facendo perché è attivo il filtro anti turbamento, fino a quando, rompendosi, lei vede il viso insanguinato della madre a terra, ma questo non la distoglie dalla sua fuga.

La donna ferita e insanguinata si precipita per strada tentando di far funzionare in congegno, ma senza riuscirci. Si accascia sulla strada e piange, in controscena si vede la figlia che fa l’autostop e sale su un camion.

Il resto è lasciato all’immaginazione di ognuno.

Sono uscita dalla visione provata emotivamente, rivedendomi nel duplice ruolo di figlia e di madre mi sono sentita, per un attimo, senza via d’uscita.

Vieppiù che avevo finito di leggere da qualche giorno, un libro che affronta lo stesso tema di esercizio di controllo materno, Il ruggito della mamma tigre, di Amy Chua, un libro autobiografico dove l’autrice espone le sue idee educative per far sì che le due figlie diventino eccellenze in ogni campo, in particolare nel suonare uno strumento musicale.

Fino a che punto si può spingere l’amore materno? Il controllo della vita dei propri figli, anche a fin di bene, può diventare un’ossessione costante? La propria vita diventa, appunto, uno specchio nero, che riflette una realtà distorta, una mina vagante pronta ad esplodere in qualsiasi momento.

Il prodotto finale di questo tipo di amore è la distruzione di entrambe, si produce un’alterazione irreversibile nell’equilibrio caratteriale della figlia, sia nell’averla privata di una parte emotiva, che, per quanto terribile, fa parte della vita, sia esasperando la sua possibilità di agire a causa della consapevolezza di essere spiata costantemente.

Crescere senza la percezione di ciò che può far male ti lascia senza difese in situazioni che, inevitabilmente, si vengono a creare. Ti leva la possibilità di scegliere e di comprendere fino in fondo cosa vuoi veramente.

Avere la consapevolezza che ogni passo è monitorato e seguito inibisce e non dà la possibilità di acquistare le sicurezze necessarie per affrontare la vita.

Finchè è piccola la bambina si sente anche rassicurata da questo controllo, tanto è vero che quando la madre chiude il congegno, i primi tempi è spaesata e impaurita ma quando raggiunge l’autonomia esso è visto come una limitazione della propria libertà, delle proprie manifestazioni vitali. Si aggiunge, inoltre la chiusura del dialogo autentico ed importante fra le due, che non hanno mai affrontato la questione da nessun punto di vista. Nessuna delle due, infatti, ha mai manifestato il bisogno di mettere in discussione ciò che succedeva, né l’ansia materna indotta dalla paura del pericolo per la figlia, né il disagio della figlia nel subire l’aberrazione di questi controllo costante.

La mamma tigre, da suo canto, costringe, le figlie ad una disciplina estenuante e impietosa, acuisce all’inverosimile l’ambizione e il dover primeggiare a tutti i costi, è onnipresente in tutto ciò che le figlie intraprendono attivandosi in prima persona, mentre la madre ansiosa è incapace di accettare l’autonomia per un ambivalente stato di incapacità di gestire le sue paure e di tenere legata la figlia a sé trasmettendole queste paure.

Entrambe trascendono l’amore in una affermazione di sé stesse, mascherata da benevolenza e lungimiranza.

Il punto di vista della gatta

Noi gatte partoriamo da sole i nostri cuccioli. Li nutriamo, li cresciamo, gli insegniamo a difendersi e ad affrontare la vita, poi li lasciamo andare. Il nostro modo di amarli è questo, dare vita alla vita.

Dalle mie scorribande sui tetti, scorgo madri ansiose o indifferenti, preoccupate o tristi, non danno vita alla vita.

La gatta

Generazione 2.0 versus gerontocrazia imperante: senza un punto di incontro ci fottiamo il futuro. Sottotitolo: come da una bustina di tè si arriva a pensare ai massimi sistemi

generazioni

Oggi pomeriggio acciambellata sul divano leggermente indisposta, approfittando spudoratamente del mio malessere mi sono fatta coccolare da marito e figlio cosi che il mio affettuoso consorte mi ha chiesto:

“cara, vuoi che ti faccia un tè? “

“Sì, grazie” rispondo con un sorriso tra la sofferenza e il compiacimento.

Dopo un tempo interminabile, arriva con un tazzone colmo fino all’orlo in cui galleggiava una bustina di tè disperata, che per quanto si sforzasse, non riusciva ad aromatizzare l’acqua. Per non sembrare un’ingrata, gentilmente gli ho fatto notare che per me, se non lo avesse ancora notato, piace in una graziosa tazza di porcellana di dimensioni contenute, in modo tale che la concentrazione della bevanda abbia la giusta consistenza di sapore. Alla mia garbata lamentela risponde il pargolo dicendo:

” Mamma, ma tu lo sai che ci sono persone che la bustina del tè la usano due volte?”

Serafica lo guardo dicendo:

“Quando saremo così poveri da dover usare una bustina di tè per due volte di seguito lo faremo, ora, godiamoci il piacere di quello che possiamo avere”

E lui:  “ Si arriva alla povertà con lo spreco e quando non si è abbastanza previdenti”

E va bè ho un figlio saggio… e sono una mamma sconsiderata…forse avrei dovuto fermarmi a questa riflessione ma sarebbe stato impossibile non ravvedere fra questi diversi atteggiamenti il segno di divergenza mentale ormai topica

Alla sua età non mi sarebbe mai venuto un pensiero del genere, semmai erano i miei genitori a formulare simili ipotesi e non credo neppure che mio figlio sia il solo saggio della generazione 2.0  e io la sola mamma sconsiderata.

Questi giovani nuovi sono cresciuti a pane e web, svincolati dal tempo e dal luogo, attraverso livelli up to date di comunicazione, destreggiandosi fra informazioni, opinioni e fake news, condividendo il valore del mettersi in gioco in prima persona attraverso blog, forum, social, video, feedback personali, globali e connessi nell’ambito di un circuito oltre che di informazione anche di relazione,  intrattenimento e consumo.

Hanno una marcia in più datagli dall’avanzamento costante e continuo delle nuove scoperte tecnologiche applicate ad ogni campo eppure sono costretti a lavorare sottopagati o non pagati affatto, a rimanere in casa con i genitori, a rinunciare ad avere figli a loro volta, sono carichi di problemi e subiscono l’ingiuria sociale senza tentare, almeno apparentemente, una ribellione.

Sono senza personalità? Non credo, penso tutt’altro. Le loro capacità di porre lo sguardo oltre al confine dello sfacelo economico, politico, sociale sono acute e vanno in una direzione molto diversa da quella della attuale classe dirigente che, incapace di porre rimedio, continua a blaterare cose senza più senso, radicata in contesti obsoleti, in pensieri stantii e ripetitivi, assisa sul discutibile benessere raggiunto e sulle campagne elettorali.

Ciò che non viene loro dato è l’opportunità di mettersi in gioco, ciò che manca sono i Maestri, coloro che trasmettono il sapere antico per farlo amalgamare con il nuovo che avanza e si mettono da parte perché il loro tempo è stato vissuto, il che non vuol dire rottamarsi, ma bensì porsi come osservatori per evitare errori già commessi e come garanti del divenire, poiché, si sa, non c’è rinascita senza radici, purchè siano sane e qualche cosa di buono è stato fatto anche dai “vecchi” che prima di devastare hanno  costruito.

Quali siano state le nostre responsabilità consapevoli e non consapevoli è un confine spinoso da definire. Confine che difficilmente stabilisce dove finisce il cambiamento generazionale e comincia la crisi di un’epoca che ha visto sgretolarsi la cultura come substrato di crescita, ha liquidato la parte spirituale come debolezza, i sentimenti come zavorra, e fatto assurgere a valori politica, denaro e potere, ambizione, sopraffazione e violenza, disonestà e corruzione.

Ci sono vite abbandonate nelle case, come se un virus potente si fosse impadronito del dialogo, ci sono grandi silenzi oppure bocche urlanti che non si parlano.

Talvolta vedo anche un cane solo e afflitto che vorrebbe correre in un parco o un vecchio con del cibo che non nutre.

La gatta

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